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Mafia: investimenti al Nord

3 dicembre 2009

Ciancimino: la mafia investi’ nella Edilnord

di Silvia Cordella – 2 dicembre 2009

(Fonte: Antimafia2000.it)

Gli affari dei padrini a Milano tornano ad essere al centro delle inchieste giudiziarie di queste settimane. Ieri, su questo argomento, è stato invitato a fare chiarezza Massimo Ciancimino interrogato dai pm della procura di Palermo e Caltanissetta in una riunione congiunta nella città nissena.

A dieci giorni dall’apertura della nuova indagine per mafia su Francesco Paolo Alamia, imprenditore legato a Vito Ciancimino e in affari negli anni Settanta con il Senatore Marcello Dell’Utri, Ciancimino jr ha chiarito alcuni aspetti sui flussi finanziari della mafia palermitana di quei tempi all’ombra della Madonnina. In particolare, rivelano stamattina Repubblica e La Stampa, Ciancimino “sentì parlare di soldi dei clan a Milano 2” investiti nella Edilnord da due costruttori mafiosi: Antonio Buscemi, del mandamento di Passo di Rigano – Boccadifalco e Franco Bonura, dell’Uditore, condannato nel 2008 a vent’anni di reclusione.
Secondo Massimo Ciancimino sarebbero stati loro a “fare grossi investimenti nella Edilnord tra gli anni ’70 e ‘80”. Nel 1992 Antonio Buscemi era finito nel famoso rapporto dei carabinieri “Mafia e Appalti” insieme ad altri nomi di mafiosi, politici e imprenditori di cui si stavano occupando, prima di essere uccisi, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’inchiesta aveva fatto emergere anche i rapporti tra l’imprenditore di Boccadifalco, referente economico di Riina e Provenzano e la Calcestruzzi di Raul Gardini. Anche questa finita sotto i riflettori della giustizia dopo aver scoperto le sue “partecipazioni” mafiose.  Ma non è tutto. Massimo Ciancimino ha ricordato che il padre avrebbe fatto da “consulente” in una delle società (la Venchi Unica) in cui s’incontravano gli interessi di Marcello Dell’Utri e Filippo Alberto Rapisarda, uno dei testi dell’accusa del processo Dell’Utri.
Al di là di questo Ciancimino non fa commenti. “Ho parlato di tutto e di più – ha detto all’uscita dell’interrogatorio – non chiedetemi di che cosa perché tutti i verbali sono stati secretati. Posso soltanto dire che sono a completa disposizione dei magistrati e che ci saranno nuovi interrogatori”. Questa volta insomma Ciancimino sembra essere disposto a raccontare ogni particolare della vita di suo padre, anche quei dettagli sugli affari del vecchio patriarca che finora aveva tralasciato “per paura”.
Di fronte al procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari, ai suoi aggiunti Domenico Gozzo e Amedeo Bertone e ai sostituti Nicolò Marino, Stefano Luciani e Giovanni di Leo e in presenza del pm di Palermo Nino Di Matteo, il figlio dell’ex sindaco condannato per mafia ha poi cercato di datare tre “pizzini”. Quelli che Provenzano aveva destinato a suo padre e che lo stesso ha consegnato ai magistrati qualche giorno fa. In particolare l’attenzione si è concentrata su una missiva scritta tra il 2000 e il 2001 che farebbe riferimento a un Senatore. “Caro Ingegnere – scriveva Provenzano a don Vito – ho ricevuto la “ricetta” ci dobbiamo incontrare nel solito posto, al cimitero, per chiarire alcune cose…. Abbiamo parlato con il nostro amico senatore per quella questione, hanno fatto una riunione e sono tutti d’accordo”. Ciancimino non sembrerebbe avere la certezza assoluta, ma il nome che sarebbe venuto fuori durante l’interrogatorio è quello di Marcello Dell’Utri. Un senatore, quello del “pizzino”, in rapporto diretto con Bernardo Provenzano che avrebbe dovuto far ottenere qualcosa: “Una ricetta”. Ovvero, una serie di agevolazioni a favore dei mafiosi come il dissequestro dei beni e l’amnistia. Una sorta di condono che nel 2000 in effetti prese piede nel nostro Paese attraverso una campagna mediatica dalla quale don Vito sperava di usufruire per poter uscire di prigione. Un provvedimento in realtà mai approvato ma che il 23 giugno 2000 era arrivato in discussione al Parlamento e il 30 giugno successivo era stato oggetto (come “atto di clemenza per i carcerati”) di un appello del Papa, in occasione del Giubileo dei detenuti del 9 luglio 2000 con la visita dello stesso pontefice al carcere di Regina Coeli.

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PALERMO-MILANO  ANDATA E RITORNO

“Poi è morto Borsellino. E’ morto Borsellino e io non ho parlato più con nessuno, sono andato avanti per la mia strada”
Teste Antonio Di Pietro, processo “via D’Amelio ter”,  udienza del 21 aprile 1999.
di Massimo Brugnoli

“Ma qui a Milano non si riesce più a concludere un affare, con quel Di Pietro che arresta gli imprenditori e mette il naso nei conti svizzeri!”
Così, nel 1992, si lamentavano alcuni boss di Cosa Nostra “in trasferta” in Lombardia. L’aneddoto si riferisce ad una cena in un ristorante alle porte di Milano, cui parteciparono, tra gli altri, l’allora latitante Piddu Madonia e il massone socialdemocratico Angelo Fiaccabrino (ed è stato rivelato agli inquirenti da Paolo Casellato, agente infiltrato della Guardia di Finanza).
L’episodio evidenzia uno degli aspetti più inquietanti e, purtroppo, meno dibattuti, della storia recente del nostro Paese: le connessioni fra l’inchiesta Mani Pulite e gli affari di Cosa Nostra e, viceversa, tra il lavoro dei magistrati antimafia di Palermo e la corruzione politica, al Sud come nel Nord.
Già nel 1990, in un suo intervento, Paolo Borsellino denunciava esplicitamente come la corruzione fosse “l’anticamera della mafia” nel Nord Italia, precisando come chi volesse investire fuori dalla Sicilia grosse somme di denaro frutto di attività illecite non avesse alternative che a rivolgersi a pubblici amministratori già compromessi e, per questo, disponibili ad “ulteriori intrallazzi”. E ancora nel maggio ‘92, nella sua famosa, ultima, intervista, rilasciata al giornalista francese Fabrizio Calvi, lo stesso magistrato sottolineava come fosse normale il fatto che Cosa Nostra cercasse come interlocutori alcuni grandi imprenditori al Nord al fine di far fruttare gli enormi guadagni realizzati dall’organizzazione soprattutto con il traffico di stupefacenti.
Vale la pena citare, a questo punto, le motivazioni della sentenza d’Appello del processo bis per la strage di via D’Amelio. Qui i giudici, evidenziando la perplessità di parecchi uomini d’onore circa l’opportunità di eseguire un’azione tanto eclatante poche settimane dopo Capaci (e che avrebbe potuto provocare, come poi è avvenuto, una dura reazione da parte dello Stato), citano la probabile presenza di un “suggeritore esterno” che avrebbe potuto garantire dei benefici per il futuro dell’organizzazione.
Secondo il Tribunale, “fra i vecchi  detenuti, tutti vecchi compagni d’arme di Riina […] era, quindi, diffusa l’opinione che nella strage di via d’Amelio vi fosse stato un suggeritore esterno, al quale il Riina non si era potuto sottrarre. Tale suggeritore andava ricercato tra gli interessati all’indagine su mafia e appalti nella quale il dottor Borsellino aveva dichiarato, imprudentemente, di volersi impegnare a fondo, nello stesso momento in cui Tangentopoli cominciava a profilarsi all’orizzonte.” Quindi, il “suggeritore esterno”, a cui Riina non poteva dire di no, andrebbe ricercato nei meandri di Tangentopoli, in un momento in cui a Milano erano già iniziate le grandi indagini sulla corruzione che si stavano espandendo in tutto il Paese.
Sta di fatto che nell’aprile-maggio ‘92 il pool di Milano, che aveva capito che Tangentopoli è un sistema a livello nazionale, cercò di “aprire”, per dirla con Di Pietro, anche al Sud e in Sicilia. Ma si trovò di fronte a un fatto nuovo: mentre da Milano a Roma gli imprenditori facevano la fila per venire a confessare, al Sud non parlava nessuno. E questo per un motivo molto semplice: la “convenienza processuale” che altrove consentiva all’imprenditore che confessa di uscire dall’inchiesta patteggiando la pena e salvando la propria azienda, qui non esisteva. Per il semplice fatto che in Sicilia l’imprenditore che parlava rischiava la vita. Il sistema era infatti quello del “tavolinu” a tre gambe (di cui ha parlato nel dettaglio il pentito Angelo Siino, che si occupava del sistema in prima persona): gli imprenditori, oltre ai politici, dovevano accontentare Cosa Nostra.
E infatti in Sicilia Tangentopoli venne scoperchiata nel 1991, ancor prima dell’arresto di Mario Chiesa a Milano. Il merito è dell’indagine “mafia e appalti” voluta da Giovanni Falcone e dal capitano del ROS Giuseppe De Donno, che portò, tra l’altro, all’arresto di Siino e al coinvolgimento di alcune grandi imprese del Nord, come ad esempio la Rizzani De Eccher di Udine. Un’inchiesta che avrebbe potuto essere ancora più esplosiva di quella di Milano. Come ha spiegato Di Pietro: “Tangentopoli poteva scoppiare benissimo anche a Palermo. Non è che i magistrati siciliani non abbiano provato a scalare la montagna […] Se non ci sono riusciti in pieno, c’è una ragione per così dire tecnica che l’ha impedito. Falcone e Borsellino hanno cominciato dal sicario per cercare di risalire la china e arrivare, padrino dopo padrino, alla vetta del potere politico-mafioso. Quando erano arrivati quasi alla meta, sono stati fermati nel modo barbaro che sappiamo. A Milano, io ho adottato un altro metodo: sono partito da un altro versante della collina, dal sistema delle tangenti per arrivare al controllo mafioso della politica. Ciò è stato possibile non per mia bravura, ma semplicemente perchè all’imprenditore lì conveniva parlare per salvare l’azienda. Al Sud, se parlava, non salvava nemmeno la pelle” ( A. Di Pietro,”Intervista su Tangentopoli”, Laterza 2000, pag. 50)
D’altra parte, il pubblico ministero di I e II grado del processo di Capaci, Luca Tescaroli, ha citato nella sua requisitoria, tra i moventi dell’omicidio di Falcone, “l’ulteriore spinta motivazionale, nell’uccisione del magistrato, di natura prettamente preventiva, volta a impedire allo stesso di promuovere le investigazioni nel settore inerente alla gestione illecita degli appalti, in maniera ancora più efficace di quanto aveva fatto in passato”, vista la sua probabile e imminente nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.
E se da una parte Falcone era sempre più una minaccia per gli affari di Cosa Nostra, dall’altra anche Di Pietro stava andando a toccare dei fili pericolosi.
Nel 1993, per esempio, indagando sulle tangenti Enimont al PSI, il pm milanese si imbattè nella FIMO, la finanziaria di Chiasso specializzata nel riciclaggio di denaro sporco e utilizzata, tra l’altro, dal riciclatore dei narcotrafficanti colombiani Giuseppe Lottusi, condannato a Palermo a vent’anni di carcere.
Non è un mistero, d’altronde, che Cosa Nostra abbia tenuto per parecchio tempo nel proprio mirino anche Di Pietro. Basti pensare che nell’ottobre del ‘92 nell’autoparco di via Salomone a Milano, considerato uno dei capisaldi della mafia all’ombra della Madonnina, vennero sequestrati interi scatoloni contenenti documenti inerenti l’inchiesta Mani Pulite. Inoltre i pentiti Maurizio Avola e Giovanni Brusca hanno parlato di un progetto di Cosa Nostra per uccidere Di Pietro, il primo dicendo apertamente che si sarebbe trattato di “fare un altro favore ai politici” (interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 5 dicembre 1996).
Lo stesso Di Pietro ha rilasciato questa illuminante dichiarazione, riportata da Leo Sisti e Peter Gomez nel loro libro “L’Intoccabile-Berlusconi e Cosa Nostra” (Kaos Edizioni, pag. 321): “Io e Piercamillo Davigo crediamo che i canali attraverso i quali passano i soldi che scottano siano pochissimi. Quando andiamo a vedere che cosa accade all’estero, in Svizzera e negli altri paradisi fiscali, va a finire che ci si imbatte sempre nelle stesse persone […] Guardate: da una parte ci siamo noi del pool, dall’altra c’era Giovanni Falcone. Noi andando a caccia di tangenti risaliamo una china, lui cercando i flussi delle narcolire era già andato su per l’altra. Più ci si avvicina alla vetta del monte e più le indagini di Milano e Palermo sembrano assomigliarsi. Si arriva agli stessi nomi, alla stessa gente.”

MILANO, CENTRO DI RICICLAGGIO

Peter Gomez, giornalista de L’Espresso, esperto di mafie all’ombra della Madonnina

di Giorgio Bongiovanni

Com’è la situazione attuale di Cosa Nostra a Milano, secondo il tuo parere?
A mio parere è uguale al passato. Gli uomini d’onore ci sono sempre,  vi sono volti più giovani, ma vi sono anche i vecchi esponenti di Cosa nostra quali i Bono che sono usciti di nuovo dal carcere. Non so invece che fine abbiano fatto i Pirrone… e poi ci sono sempre i parenti dei Mannino e dei Fidanzati.

A Milano la ‘Ndrangheta è forte come Cosa nostra?
Era più forte di Cosa nostra da un punto di vista militare anche se, in questo momento, sono tutti in galera. A Milano, per quanto riguarda il traffico di droga, fanno più paura gli Albanesi,  perché essendo più violenti, sembrano avere una preminenza rispetto a vecchie famiglie mafiose quali per esempio i Ciulla. In città Cosa nostra non ha più il controllo del territorio o forse non l’ha mai avuto. Sono gli albanesi che hanno tentato di controllare alcuni paesi dell’hinterland milanese come Trezzano sul Naviglio e Rozzano, anche se da un anno e mezzo a questa parte, le misure del pacchetto sicurezza hanno funzionato e la situazione è radicalmente cambiata.

Cosa nostra a Milano ha riciclato centinaia di miliardi, questo grande giro finanziario esiste ancora?
Certamente, esiste ancora, a partire da Michele Sindona, Calvi, fino ad abbracciare altri personaggi sui quali le inchieste sono ancora in corso. Nessuna indagine fino ad ora, però, è stata in grado di identificare questi giri finanziari in maniera processuale. Abbiamo forti sospetti, ma nessuna certezza.

Secondo il collaboratore di giustizia Di Carlo, Dell’Utri sarebbe un uomo d’onore, cioè affiliato a Cosa nostra, che cosa ne pensi?
Questo lo decideranno i giudici. Se anche fosse vero, non mi sorprenderebbe. In passato è già successo che uomini dai colletti bianchi venissero affiliati. Ricordiamoci che se Di Carlo ha ragione, – e comunque tutto è ancora da dimostrare -, parla di una affiliazione che sarebbe avvenuta negli anni ‘80, prima dell’omicidio del generale Dalla Chiesa e in quel tempo la visione che si aveva della mafia era diversa.

Alcuni dicono che demonizzare Berlusconi e Dell’Utri, pur parlando di collusioni con la mafia, potrebbe essere controproducente, qual è la tua opinione?
Ritengo che in questo paese grazie alla potenza dei media e di Berlusconi siano stati creati dei pregiudizi che sono ormai comuni. Prima si è favoleggiato sulla potenza mediatica del Cavaliere, poi sulle toghe rosse, poi dei giornalisti e del complotto internazionale con il caso “Economist”. Si tratta di un vecchio concetto Stalinista-Leninista: <<Calunniate, calunniate qualcosa resterà>>, tra l’altro molto radicato nella società italiana e favorito anche da alcune indubbie sconfitte processuali. Nel momento in cui Andreotti viene assolto, sia pure ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, purtroppo ci sarà sempre qualcuno autorizzato a dire che le accuse contro Marcello Dell’Utri possono essere strumentali; in realtà i verdetti vanno rispettati. Quello che fa paura, a mio parere, è la potenza mediatica in mano al Cavaliere e non solo in mano a lui, ma ad una serie di personaggi quali imprenditori, proprietari di giornali che, rimasti invischiati come corruttori in Mani Pulite, hanno tutta la necessità di delegittimare il giudice e la parte onesta del paese.

Giovanni Brusca ha detto che la mafia non ha bisogno di votare, ha semplicemente fatto dei favori…
E’ esattamente così. Provenzano ha cercato di “agganciare”, sia pure a livello locale, uomini del centro sinistra. La mafia non fa politica usa la politica.

In questi sei anni di governo di centro sinistra sono state varate leggi che lasciano molto a desiderare. Per quale motivo? Si può parlare di errore, distrazione, collusione o di qualcosa d’altro?

In qualche caso di collusione, in molti casi di ingenuità e nella stragrande maggioranza c’è stato chi nel centro sinistra si è sentito più furbo di tutti gli altri e ha pensato di poter neutralizzare una serie di avversari politici tenendoli sotto “scopa”, per poi poter governare. Non c’è l’ha fatta, ha sbagliato il calcolo e adesso il Paese ne paga tutte le conseguenze.

E’ possibile, a tuo parere,  ipotizzare che la mafia e i poteri forti controllano il nostro Paese, a prescindere da qualsiasi fazione politica vada al potere?

Non credo in un controllo assoluto, penso che questo paese rimanga fondamentalmente onesto. Anche se mi sorge la domanda per quale motivo bisogna iscriversi alla massoneria, – che a mio parere non è del tutto deviata -, e non al Rotary? E ancora, perché i nomi degli iscritti alla massoneria, pur essendo  depositati presso le Questure, o    le Prefetture, non sono conosciuti da tutti? Al di là di questa riservatezza, il problema è  che il manovratore, chiunque egli sia, non vuole essere disturbato.

Secondo te, perché non si parla quasi mai del rapporto mafia e Vaticano?
Perché in Italia non si può toccare il Papa, la Ferrari e forse qualcos’altro; all’Estero, invece, sono stati scritti molti libri su questo argomento e negli Stati Uniti se ne parla continuamente. In Italia il Vaticano è un potere reale. Nel nostro paese la libertà di stampa non è assoluta o meglio ci sono dei giornali abbastanza liberi, ma sempre entro certi limiti. Siamo in una democrazia ancora imperfetta, e in un sistema capitalistico, che non è ancora compiuto, tutto questo probabilmente negli Stati Uniti non succederebbe.

Una tua opinione su  queste due dichiarazioni. Una del giudice Colombo: “La politica è sotto ricatto”, l’altra è quella di alcuni “pentiti”: “La mafia può ricattare lo stato”.

Credo che esista una repubblica dei ricatti infatti, considerando che Mani Pulite ha scoperto non più del 5% del malaffare, una qualsiasi persona, interrogata o denunciata su una o due del totale delle tangenti ricevute o date, si trova nella possibilità di ricattare le persone coinvolte nei fatti di cui non ha parlato. Di quello che dico si trovano i riscontri, ad esempio, relativamente a Cosa nostra, esiste un’intercettazione ambientale in cui due mafiosi – se non sbaglio di Villabate- i quali riferiscono di un coloqui che avrebbero avuto con un deputato del Polo, figlio di un parlamentare democristiano, nel corso del quale uno dei due  spiega  all’altro: <<Io gliel’ho detto che se non faceva quello che volevo io, me lo ricordavo che mio padre era mafioso, e che mio padre andava con suo padre>>. Questo signore raccontava anche che l’onorevole in questione si era messo a piangere e avrebbe detto: << tu mi rovini>>. Bisogna pensare quindi che la mafia vive sul ricatto e che il falso pentito può diventare un ricattatore.

Perchè a tuo avviso Ultimo se ne è andato?
Perché non gli hanno dato la possibilità di lavorare, d’altra parte questo non deve necessariamente essere stato fatto in mala fede. Ultimo era una persona fuori dagli schemi dell’Arma. Era diventato scomodo agli occhi di una gerarchia militare, perché nel suo piccolo aveva più potere di quanto non  gli consentisse il suo grado. Poi nessuno può escludere che ci fossero anche altri interessi. Per esempio, bisogna dimostrare che interesse avessero i carabinieri a non prendere  Bernardo Provenzano. Penso che le cose spesso si spieghino, salvo prova contraria, con storie di piccoli uomini più che di grandi complotti.
Se è vero che queste sono state le elezioni più importanti della storia della Repubblica,quali saranno le conseguenze?
E’ la prima volta che c’è un vero bipolarismo e personalmente mi sento di avanzare molti dubbi sulle qualità etico e morali del candidato del centro destra e soprattutto ho delle certezze assolute sulla inadeguatezza morale e sulla ricattabilità di alcuni personaggi che gli stanno vicino. L’Italia è sopravvissuta a vent’anni di fascismo e sopravviverà anche agli anni a venire.

La tesi più sostenuta dagli analisti ipotizza una mafia che vuole scomparire, assumendo una parvenza di legalità. Cosa ne pensi?
Vuole continuare ad esistere usando tutti i mezzi necessari.

ANTIMAFIADuemila N°13

Anche mettere altre bombe?
Se fosse utile, sì. Ma qulla strategia si è rivelata disastrosa da un punto di vista militare, mentre  con questa metodologia della cosiddetta immersione, Cosa nostra potrà ottenere, o forse sta gia‘ ottenendo, quello che chiedeva. Comunque sia,  obiettivamente, io non credo che Riina uscirà mai di galera e di questo dovranno tenerne conto quelli che verranno dopo di lui. Grazie

FININVEST: IPOTESI DI RICICLAGGIO

«Se non c’è prova piena di riciclaggio di denaro mafioso da parte della Fininvest non c’è nemmeno prova del contrario>>. Così i pm Domenico Gozzo e Antonio Ingroia nella requisitoria del processo palermitano che vede il senatore Marcello Dell’Utri imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Una dichiarazione che nasce dalle mastodontiche indagini condotte dai magistrati sull’impero Fininvest nell’intento di rispondere ad una amletica domanda: perché dopo essere stato cacciato dall’impero berlusconiano nel 1976 per la sua incapacità a dirigere un’azienda, Dell’Utri viene poi riassunto, e con ruolo di vertice, nel 1983?
Per risolvere il caso Gozzo e Ingroia hanno quindi ripercorso quegli anni che nella vita dell’odierno presidente Silvio Berlusconi sembrano essere un vero e proprio “buco nero”. Anni in cui l’imprenditore si iscrive alla P2, getta le basi del suo futuro impero televisivo, viene coinvolto in quella grande speculazione edilizia denominata “Olbia 2”. Ma soprattutto anni in cui 113 miliardi di vecchie lire (oggi valgono almeno 5 volte tanto), di provenienza sconosciuta, affluiscono nelle 22 holding Fininvest, che diventeranno poi 37. Misteriosi introiti per altrettanto misteriose manovre finanziarie non ricostruibili per l’assenza di documenti contabili nelle varie filiali bancarie. In molti casi, perché le operazioni delle holding venivano inserite dagli istituti bancari come “servizi per parrucchieria”, cosa che permetteva loro – come spiegato in udienza dal consulente tecnico dell’accusa Francesco Giuffrida – di <<sfuggire ai controlli e alle ispezioni della Banca d’Italia o di altri istituti, i quali non vengono mai attenzionati perché non ritenuti di rilevanza economica>>. Dichiarazione, questa, inizialmente contrastata dal consulente della difesa Paolo Jovenitti il quale, interrogato dal pm, alla fine cede. E’ vero, sono le sue parole, certe operazioni erano <<potenzialmente non trasparenti>> e Berlusconi <<mi aveva negato la disponibilità di tutta la documentazione sui finanziamenti delle holding prima del 1978>>. Ma perché? Si chiedono i pm. Perché a quasi trent’anni di distanza da quei flussi, ora che gli eventuali reati finanziari e fiscali sono ormai prescritti non c’è trasparenza sui capitali iniziali della Fininvest e nemmeno sui soci di Berlusconi? Che cosa si vuole coprire? Alla domanda potrebbero rispondere il boss pentito Francesco Di Carlo e l’ex imprenditore e testimone al processo Filippo Alberto Rapisarda, che hanno riferito di finanziamenti della mafia, e precisamente di Stefano Bontate, alla base dell’ascesa imprenditoriale di Berlusconi. E degli enormi capitali investiti dal capomafia nelle società televisive del Cavaliere dei quali, nonostante non esista prova, sembra esservi traccia nella presenza di elementi vicini alle famiglie mafiose nelle tv siciliane assorbite dalla Fininvest.
La prova, riprendono i pm, non può quindi essere definita totalmente inesistente, ma sicuramente incompleta e <<pienamente coerente con le dichiarazioni di Di Carlo e Rapisarda. Lo stesso consulente Jovenitti ha ammesso anomalie finanziarie e comunque non ha fatto luce sulla provenienza di quei capitali. Bastava una consulenza che ci dicesse da dove arrivavano. Invece niente>>. Ad aggiungere ulteriori tasselli anche le rivelazioni del pentito Tullio Cannella il quale ha raccontato che Giacomo Vitale, cognato del Bontate, era intenzionato a recuperare i soldi del boss in seguito alla sua uccisione avvenuta nel 1981 nel corso della guerra di mafia che portò i corleonesi alla leadership di Cosa Nostra. Quegli stessi soldi che tramite la P2 sarebbero finiti in gruppi finanziari imprenditoriali del centro nord. <<Io sentii parlare di Dell’Utri proprio da Vitale – ha dichiarato Cannella il 2 agosto 1996, confermato poi da Gioacchino Pennino – il quale mi disse: i piccioli di mio cognato se li fotteva Dell’Utri. Nel senso che si parla di svariate centinaia di miliardi, non si parla di dieci, due miliardi>>. <<Il Vitale mi parlò di Dell’Utri, ma come una sua supposizione. Cioè non aveva la certezza, non era certo di questo>>. E curioso è quel riferimento ai gruppi imprenditoriali del centro nord se si pensa che nello stesso periodo in cui Berlusconi fa il suo ingresso nelle logge massoniche anche Bontate, spiegano i pm, <<tenta di rendere strutturale il rapporto tra l’associazione mafiosa e la massoneria>>. La sua intenzione, rivelava Francesco Di Carlo, era quella di <<civilizzare Cosa Nostra, meno violenza e più ampia amicizia con la massoneria, la finanzia, Milano e tutto… lui diceva: la politica in Sicilia la abbiamo nelle mani, ci mettiamo la finanza a Milano…>>. Ed <<episodio principe per descrivere i rapporti di cui stiamo parlando – riprende Gozzo – è sicuramente quello della Sardegna>>. Quella già accennata speculazione edilizia che vede il Cavaliere e Cosa Nostra in “rapporti d’affari” tramite un unico intermediario: Flavio Carboni, <<legato alla massoneria>>. Nel 1982, quando la storia giunge alla ribalta delle cronache, l’immagine di Berlusconi ne esce fortemente compromessa. Da qui, riflette Gozzo, cominciano le considerazioni che hanno indotto Berlusconi a riassumere Dell’Utri. Il suo tentativo di allontanarlo era infatti fallito poiché egli si era ritrovato, possiamo dire rocambolescamente, di fronte alla medesima associazione criminale che in qualche modo aveva cercato di allontanare>> e che Dell’Utri <<nel ’74 gli aveva portato a casa>>. Dell’Utri, quindi, ritorna ad Arcore e i rapporti con la mafia continuano…

ANCORA COSA NOSTRA AL NORD

Il procuratore di Vicenza Antonio Foiadelli illustra la situazione attuale di Giorgio Bongiovanni

L’attuale agenda governativa è povera di elementi riguardanti la criminalità mafiosa e organizzata. I rapporti della polizia, della DIA e, soprattutto, dei procuratori che lavorano in trincea, dicono però che la mafia non solo si è ricostituita dopo i colpi subiti tra il ’92 ed il ’93, ma è divenuta una potenza economica mentre i delitti all’interno delle cosche continuano. Le organizzazioni mafiose, Cosa Nostra in primis, avrebbero oggi la stessa forza che avevano ai tempi di Falcone e Borsellino? Quale procuratore capo di Vicenza, cosa ne pensa?
Purtroppo non si tratta di opinioni, bensì di dati di fatto. E dobbiamo inoltre riconoscere un abbassamento della guardia che può essere pericoloso per due motivi. Principalmente poiché denota una sorta di disattenzione nei confronti di un fenomeno importante come è quello delle aggregazioni mafiose e che, talvolta, si è posto come nemico addirittura in termini militari nei confronti delle Istituzioni. Secondariamente perché questa situazione potrebbe contenere un pericoloso messaggio proprio per la criminalità organizzata che ha imparato che i delitti, che creano situazioni di emergenza e grande allarme, in fondo non pagano. È invece maggiormente pagante una politica di infiltrazione sistematica, subdola e costante nell’ambito del tessuto statale. La conferma di ciò arriva dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori, e cito Felice Maniero che sosteneva di essersi sempre opposto ad azioni eclatanti che avrebbero attirato l’attenzione disturbando gli affari. La teoria di Arlacchi, spiegata nel suo libro “La mafia imprenditrice”, è sempre valida poiché la mafia certamente è alla ricerca di due cose, potere e denaro, ed evidentemente sta comprendendo che meno si turbano le acque e più tranquillamente si possono raggiungere questi obiettivi.

Per quale ragione lo Stato, dopo aver raggiunto risultati straordinari nella lotta alla mafia, puntualmente si blocca o, addirittura, fa marcia indietro?

Sotto certi aspetti il potere criminale è diventato un vero e proprio potere. Non mi sento però di azzardare che vi sia una sorta di tacita alleanza con il potere istituzionale… sarei agghiacciato da questa idea, anche se bisogna riconoscere che lo stesso potere politico, proprio per l’esigenza ed il bisogno di affermazione che ha, più di una volta è sceso “a patti”. Le trattative sono grandi serbatoi di potere, ma anche di consenso che può essere guidato e spostato. Ma credo che ci sia anche un po’ di disattenzione e una sorta di preoccupazione di non disturbare troppo l’opinione pubblica che ha la memoria corta, si tratta di un vizio nazionale… si cerca di rimuovere ciò che è sgradito e pensare ad altro. E’ un grave errore che potrebbe riportarci indietro nella lotta alla criminalità che è pronta ad insorgere anche visibilmente. La visibilità e l’invisibilità della mafia sono cicliche.

È ormai provato che negli anni ’70-’80 e in parte degli anni ’90 la mafia ha avuto rapporti molto stretti con la delinquenza locale. Oggi Cosa Nostra e ‘Ndrangheta controllano ancora la criminalità del Nord?

Deve essere un’affermazione fondata necessariamente sui dati disponibili e non è detto che lo siano tutti. Quell’alleanza forse è venuta meno poiché obbediva a quel particolare tipo di contingenze legate soprattutto al traffico di armi e droga che, in quegli anni – fino a dieci anni fa –, era forse l’affare più importante. Maniero ha sempre sostenuto che queste trattative ci sono state, che obbedivano a criteri di reciproca convenienza, poiché c’era una sorta di reciproca garanzia sul controllo del territorio. Ha sempre spiegato però, che in queste zone questi rapporti non c’erano proprio perché la criminalità mafiosa locale non aveva quella stessa penetrazione nelle coscienze, nel costume e nel territorio di Cosa Nostra. Le trattative si basavano su un piano di parità e alleanza. E’ anche vero però che in questo contesto si sono inserite alleanze variabili, addirittura con l’eversione, sia da una parte che dall’altra.

Si tratta del terrorismo rosso e nero?
Convenzionalmente si parla di questo tipo di terrorismo. Magari perché uno aveva bisogno di finanziamenti mentre all’altro servivano armi. E poi non ci sono regole etiche quando si tratta di affari criminali.

Maniero trattava con una famiglia specifica di Cosa Nostra?
Trattava prevalentemente con i Grado anche se, anni addietro, aveva rapporti con i Milanesi. La ragione per cui in queste zone non c’è un radicamento della mafia tradizionale, è in parte dovuto ad una diversa condizione ambientale e ad un diverso controllo del territorio dal punto di vista militare. C’è una forte affermazione delle mafie di importazione soprattutto di origine balcanica. Questo è avvenuto in epoca successiva al controllo da parte della banda Maniero e Cosa Nostra… smantellata una compagine, automaticamente i vuoti vengono riempiti. Tuttavia gli epigoni di Maniero sono ancora operativi. Si tratta di eredi che, pur non essendo a lui vicini, sono pur sempre gli apprendisti di allora. È difficile dire se Cosa Nostra influenzi ancora questo territorio poiché manca una sufficiente capacità investigativa. È un po’ il nostro limite, si tende a non voler credere che ci sia ancora l’influenza di Cosa Nostra… ci sono però indizi che non vengono tenuti sotto sufficiente controllo.

Dove sono andati a finire gli immensi capitali riciclati dei tempi di Maniero e Cosa Nostra?
I soldi solitamente vanno dove sono più remunerati. E, in genere, sono maggiormente remunerati dove c’è florida ricchezza. Gli sforzi investigativi finora compiuti non hanno dato risultati concreti poiché – e non vorrei apparire il solito pubblico ministero che non fa altro che lamentare la scarsezza di mezzi e uomini – la ricchezza è cresciuta a dismisura. Fino a cinquant’anni fa questo era un paese contadino e poi questo sviluppo è stato rapidissimo, a volte incontrollato, mentre le forze disponibili sono rimaste le stesse. Quindi carabinieri, polizia e guardia di finanza sono assolutamente insufficienti. Oltre alla forza numerica poi, serve anche l’attrezzatura culturale e professionale, e non è facile allevare un poliziotto, allenandolo ad un certo tipo di indagine.

Rispetto ai tempi di Maniero il livello del traffico di armi e droga è aumentato?
Una volta il traffico di armi era monopolio di certe organizzazioni, oggi invece, l’accesso a questo mercato è facilissimo: in alcune zone balcaniche esistono supermarket di armi che sono veri e propri arsenali. Stiamo constatando che tutte le bande di rapinatori sono attrezzate con armi da guerra. Probabilmente provengono da tutti quei bacini di belligeranza dell’Europa mediorientale.

Molti addetti ai lavori sostengono che la grande criminalità controlla la delinquenza comune. È un dato di fatto che, nel Meridione, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta pretendono il pagamento del pizzo dalle piccole organizzazioni criminali.
Che questo sia anche qui un dato di fatto si potrebbe affermare soltanto a fronte di riscontri che io personalmente non ho. Ma sono convinto che il controllo avvenga sia nella guida, sia nell’aspetto residuale: Cosa Nostra permette un certo tipo di attività come ai tempi in cui la droga era monopolio suo e indiscutibile.

La droga era monopolizzata da Maniero?
Assolutamente, anche se questa zona non era vastissima. Deteneva il monopolio con l’appoggio di Cosa Nostra. Paradossalmente queste organizzazioni criminali egemoni garantivano una sorta di ordine poiché controllavano la microcriminalità e la loro sconfitta ha determinato un inselvatichimento della delinquenza. Si tratta di un discorso veramente preoccupante poiché sembra quasi che si parli in termini istituzionali. E le organizzazioni criminali vorrebbero appartenere allo Stato a modo loro, cioè in termini di potere e di influenza. D’altronde oggi la grande ricchezza non è più nemmeno quella proveniente dal commercio di droga, ma deriva piuttosto dalla possibilità di controllare i mercati finanziari ed è proprio su questo che non siamo attrezzati. Non lo siamo un po’ perché si tratta di una delinquenza certamente non meno pericolosa dell’altra, ma anche perché, contemporaneamente, non ci sono fatti cruenti. Manca l’attrezzatura professionale adeguata e c’è disattenzione proprio a causa della sommersione, di questo dedicarsi agli affari.
Da quanto sta dicendo emerge che lo Stato queste cose le sa! E tutto questo mette a rischio la nostra democrazia.
Sì, è vero!
Lo Stato, come diceva Falcone, a volte si distrae, abbandona i suoi servitori. Ci deve essere una ragione logica.
Non so quale possa essere e non so neppure se ci sia una sorta di calcolo, di malafede o semplicemente una superficialità. Certo è che quel discorso di Falcone rimane, purtroppo, ancora valido. Sembra che lo Stato non ami chi lo serve e che è sincero nel dire come realmente stanno le cose. Questo aspetto mortifica un po’ tutto il nostro lavoro. A volte ci si sente degli importuni, delle zitelle che disturbano. E c’è poi questa voglia di “metterci a posto”: “lasciate stare che queste non sono cose che vi riguardano, sono scelte che appartengono alla politica. Voi limitatevi ad obbedire alle leggi”. Ma io aggiungo che le leggi dicono anche che non basta essere dei ricettori passivi, bisogna anche essere degli attivi preventori, nonché attivi ed efficaci aggressori. Senno’ il primato della legalità dove va a finire?

Quando i collaboratori di giustizia hanno parlato del rapporto mafia-politica, sono stati sempre interpretati come se, ad un certo punto, fossero diventati pentiti a gettone. Come se i pubblici ministeri li avessero usati per fini politici.
Lo definirei semplicemente qualcosa di meschino, poiché in quel momento non sono più considerati persone, ma diventano soltanto dei calunniatori.

Maniero parlò di rapporti con la politica?
E’ stato sempre evasivo su questo argomento. Non li ha negati, ma non ha neppure offerto agganci concreti, poiché è ovvio che una persona che sta rischiando dieci ergastoli, qualche calcolo lo fa, poiché pensa a quello che potrà essere il suo futuro.

Il rapporto –ormai storico in Sicilia e Calabria – tra mafia e politica c’è stato anche in questa zona?
E’ difficile dirlo. Bisognerebbe vedere se c’è stato con gruppi di forte insediamento.

Abbiamo detto prima che la mafia di Maniero è stata sconfitta. Attualmente esistono gruppi criminali autonomi?
Questi certamente ci sono, ma l’argomento andrebbe approfondito. Ma questa è una piccola sede e ormai io, che mi trovo qui da quattro anni, ho perso un po’ l’aggiornamento. Indubbiamente però si continua a parlare di riciclaggio e di grandi affari che continuano ad esistere. ritengo che, sotto certi aspetti, oggi la criminalità sia più forte semplicemente perché le condizioni sono più favorevoli poiché tutto è più tranquillo e tutti mostrano di avere altro a cui pensare. I segnali dell’esistenza di grandi “correnti” che passano sopra la nostra testa ci sono, basti pensare alle reciproche richieste di notizie tra le polizie a livello internazionale, ma è difficile concretizzare questa fluidità.

Ma mafia ha vinto?

Assolutamente no. Ma purtroppo non abbiamo vinto neanche noi. Vincere significa vincere una volta per tutte, ma non lo abbiamo fatto. Non vincerà e lo dico rifacendomi a quanto disse Falcone, che non era un profeta, ma era una persona che sapeva come stavano le cose: “Se tutto ha una fine anche questi fenomeni avranno una fine”, il problema è quando e a che prezzo.

Però alcuni procuratori temono che questa fine della mafia consista, in realtà, solo in una trasformazione da quella mafia selvaggia di Riina in una mafia che si legalizza, e che vince.
C’è questo rischio poiché la cultura si trasforma e diventa egemonica.

Lo stesso Buscetta disse che i figli dei grandi capi di Cosa Nostra si laureano, diventano agenti di commercio, di borsa, grandi manager, però nella loro mente c’è l’omicidio, la mentalità criminale.

Sì, hanno una visione dello Stato in termini di supremazia e non già una visione istituzionale in senso pubblicistico, ma questo è il rischio che io ora vedo solo come tale anche se, purtroppo, lo vedo. Ma finché ci sarà ancora anche una sola persona, finché sarà l’ultimo respiro di quella persona, vale la pena andare avanti.

NOSTRO COMMENTO: Anche se gli articoli sono lunghi, i contenuti sono molto interessanti. Un plauso ad Antimafia 2000.it protesa a 360° a combattere la Mafia.

2 commenti leave one →
  1. fernando permalink
    4 dicembre 2009 05:07

    Forse in questa italia senza piu’ valori e rispetto esiste ancora uno spiraglio per mettere la parola fine alla tracotanza del potere ,e dare un significato al coraggio di chi è morto per un Italia vera quella basata sulla legalità.
    Perchè il silenzio che si sperava di ottenere con la morte di grandi uomini ,che hanno sacrificato la loro vita, è diventato un onda travolgente di rabbia e di indignazione che spazzerà via chi ha pensato di rimanere impunito.

  2. 4 dicembre 2009 07:16

    Bravo Fernando (ti chiami come me!) Condivido al 100%. Un cordiale saluto da Fernando (spacepress)

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